Sozzi Mauro

Questi racconti, tra narrativa critica, proposte e lettere alla stampa, abbracciano un lungo periodo di tempo che va dalla sua giovinezza ai giorni nostri.

Il suo stile scarno e mordace ci permette, come attraverso uno specchio, di vedere riflesse le buone e cattive cose della nostra società.

L'autore, con passione, ogni volta affronta un tema che gli sta a cuore, ispirato dalla realtà che lo circonda e dalle sue esperienze personali e culturali.

Ne risulta un bellissimo "quadro" dalle mille sfumature, colori e contrasti che alla fine riempie i nostri occhi provocandoci mille emozioni.

Sozzi rivela anche un animo di poeta, nelle poche poesie che concludono il volume a mo' di ornamento.


Fatti di vita vissuta

Scuole Elementari piazza Dante 1935 

Andavo a scuola, frequentavo l'ultimo anno delle elementari, correva l'anno 1939. Vivevo molto miseramente. Erro orfano di padre. Figlio unico, vivevo con mia madre, allora quarantenne, in un unica stanza, al piano terreno, di un fatiscente palazzo, privo di tutto: acqua, gabinetto, focarile e "riscaldamento". Quest'ultimo accessorio che ho scritto tra virgolette, non sapevo nemmeno che, a quei tempi, potesse esistere, in quanto la mia vita, vissuta sino a quel momento, non poteva darmi una consapevolezza del genere.

Ma lasciamo andare tutte le considerazioni che si potrebbero fare in conseguenza del vivere a quel modo, anche perché ritengo basti un minimo di riflessione per rendersene conto.

Mio padre, ormai morto, e mia madre erano entrambi analfabeti, è un dettaglio che ritengo di evidenziare proprio a causa della storia in questione, di cui, andando avanti ce ne renderemo conto.

Mia MADRE che scrivo con lettere maiuscole, perché sento il dovere di dare a quella donna, in qualunque modo possibile, una riconoscenza e un amor infiniti. Lei sola è riuscita, comunque, a farmi vivere nella decenza. Solo Dio sa quanti panni e quante scale ha lavato per mantenermi. Erano anni duri 1939- 1945 che io vivevo tra i miei 11 e 16 anni.

Come ho detto frequentavo la quinta elementare, ero un bambino intelligente e vivace. Non ero affatto seguito a casa come avrei potuto esserlo... vivevo praticamente da solo, poi mia madre era occupata nei suoi lavori... insomma non ho mai aperto un libro fuori della scuola. Nessuno mi costringeva a farlo. Per dire il vero e senza ipocrisia, potevo farne a meno. Ero infatti considerato uno dei migliori, se non il migliore della classe. Imperava il maestro Marangoni (allora i maestri "imperavano" davvero, non come oggi), mi fece assegnare una borsa di studio che non ebbi modo di utilizzare perché non seguitai gli studi.

Non è questo però che intendo raccontare. Lo faccio perché s'intreccia, anzi ne è la causa del fatto che sto per raccontare.

Nella scuola c'erano come normalmente accade, ragazzi di differente condizione sociale. I due estremi erano rappresentati: uno dal sottoscritto, condizione più povera, e l'altro da Giorgio Bianardi, condizione più agiata. Sua madre, una delle poche sarte più rinomate della città, gestiva una sartoria con cinque o sei lavoranti. Suo padre era un funzionario, di un certo livello al Municipio. La loro casa consisteva di cinque o sei stanze al primo o secondo piano, non ricordo bene; era situata al centro, o quasi della città vecchia. Però con tutto quel ben di Dio che si ritrovavano (ottima casa, ottima agiatezza ecc), mancava loro quel brillante smalto di apprendimento che impediva a Giorgio di essere collocato ai vertici della classe. Il fatto non sarebbe poi stato tanto grave, non era ai vertici ma rientrava benissimo nella media dei più dotati. Questo però non era sufficiente per sua madre, ed è comprensibile, in quanto madre, che desiderasse che il figlio si collocasse nella posizione migliore. Sta di fatto, che lei chiedendo al maestro quali suggerimenti avrebbero potuto far progredire il figlio, lui rispose di far andare me a casa sua il pomeriggio per fare lezione insieme a lui. La madre accettò di buon grado e così il maestro mi chiamò e mi "ordinò" di andare a casa di Giorgio. Per me fu veramente una bruttissima notizia. Però...

Erano le due del pomeriggio, andai per la prima volta a casa di Giorgio. Venni introdotto nello studio dove già lui mi aspetta. Provai soggezione nel vedere quei grossi scaffali pieni di libri, quei mobili così spessi mai visti prima; un tavolo, forse scrivania, così grande... e sentii un odore quasi simile a quello che si sente in chiesa. Avevo quasi la pelle di gallina.

Iniziammo a fare lezione... Erano ormai circa le quattro, stavamo per finire: a me pareva un secolo; quando si aprì la porta e si fece avanti, sorretto dalle mani della madre un bel vassoio con sopra distese due fette enormi di pane ricolme di almeno un "quintale" di marmellata. L'adrenalina mi salì alle stelle. Non riconobbi la qualità della marmellata, non avevo esperienza in proposito, ma non fu di nessuna importanza. La madre rivolta a noi, ci disse, con tono deciso:

«Su ragazzi è l'ora della merenda, ora mangiate, poi terminate la lezione, penso che siate ormai alla fine e, poi, fuori a giocare!»

Ebbi un sussulto riuscii a trattenere un grido di gioia che però avrei volentieri liberato...

Divorai quella grazia di Dio che scese velocemente nello stomaco senza però mancare di darmi un piacere immenso. Giorgio però non senza fatica riusci a mangiarne appena la metà. Forse per un po' di orgoglio intrinseco nella mia persona, detti uno sguardo a quella metà, ma non dissi «la mangio io!» Fu un grosso sacrificio, però dopo ne fui contento.

Si! è rimasto in me quel meraviglioso sapore col profumo di quella marmellata. Gusto e aroma sono rimasti indelebili nella mia mente per tutta la vita ed hanno rappresentato e sempre rappresenteranno quanto di più buono in assoluto ci sia al mondo.

Passarono, circa venticinque anni e, guarda il caso, ritrovai Giorgio, era entrato a lavorare all'Italsider, al reparto "controllo qualità" del laboratori metallografico che io gestivo come ricercatore. Rivederci fu un gran piacere per tutti e due. Si dimostrò bravo e capace, pure se non so, quanto sua madre avrebbe desiderato...

É certo, però, che se allora avessi avuto la consapevolezza di oggi, avrei preso in prestito le parole del poeta Kahlil Girbran1 e avrei detto a sua madre:

I tuoi figli non sono figli tuoi. /...Tu li metti al mondo ma non li crei./... Puoi dar loro tutto il tuo amore, ma non le tue idee...

Puoi cercare di somigliare a loro / ma non volere che essi somiglino a te.

(1964)

1 Famoso poeta libanese le sue opere si diffusero ben oltre il suo paese d'origine: punto d'incontro dei letterati arabi emigrati negli Stati Uniti. La sua poesia venne tradotta in oltre 20 lingue, e divenne un mito per i giovani che considerarono le sue opere come breviari mistici.

Mauro Sozzi

Nato a Piombino (Li) il 16/11/1928, ha iniziato a lavorare nello sta-bilimento di Piombino della Soc. ILVA, nel 1945, appena riaperto nel dopo guerra. Inserito nel reparto "Controllo qualità" nel laboratorio metallografico, dove ha operato sino a fine anni '60. Dopodiché fu trasferito a Genova, alla sede centrale della Soc. Italsider che nel frattempo aveva incorporato la Soc. ILVA. A Genova ha svolto mansioni di ricercatore metallurgista visitan-do, tra l'altro, molti importanti stabilimenti siderurgici del mondo. Nel maggio, del 1975, divenne dirigente. Con tale mansione ha trascorso anche diversi anni nella Soc. Acciaierie di Piombino fino agli anni '80, quando poi è andato in pensione.

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